Corso di Recupero per Astemi #10

Enologia nell'età aurea di Roma e nel Medioevo (Parte Prima)

Già Catone aveva dettato le norme per la scelta del vitigno e del terreno in cui impiantare le viti, facendo osservazioni sul clima e sulla composizione dei terreni. Columella, con maggiore chiarezza e minore laconicità, dette una serie di norme tecniche che sono valide ancora oggi. Egli diceva che sono dannose alla vite le terre pure di argilla e sabbia, buone le terre grasse dotate di molto scheletro. Notava anche che apertos Bacchus amat colles, inoltre che in collina si otteneva meno vino che in pianura, ma decisamente migliore.
Per quanto riguarda i lavori preparatori del terreno, consigliava di liberare dapprima il suolo dai residui delle vecchie piantagioni e poi dl scavare appositi drenaggi e affossature per eliminare il più rapidamente possibile l'acqua superflua. Columella era inoltre un convinto sostenitore dello scasso totale, come si fa adesso quando si impiantano nuovi e razionali vigneti. Allora non si conoscevano però rimedi per le malattie crittogamiche, che gli antichi attribuivano a malanni mandati dagli dei, oppure, come sosteneva Plinio, alle condizioni meteorologiche avverse.
I più importanti vini dell'epoca romana erano quelli della Campania e del Lazio, capeggiati dal Falerno (detto ardens da Orazio, generosus da Tibullo, addirittura immortale da Marziale), ma ne esistevano di rinomati un po' in tutte le regioni. In Sicilia c'erano il Mamertino, il vino di Giulio Cesare, il Taormino, il Siracusano; nella Gallia transpadana i vini retici; nell'attuale Veneto l'Acinatico e il Pucino, nelle Romagne il Trebulanus, o Trebbiano. La coltura della vite ai tempi di Columella raggiunse una perfezione tale da essere oggetto di ammirazione in tutti i tempi. Per l'enologia le cose furono un po' diverse in quanto mancava totalmente l'ausilio della scienza e anche dal Medioevo fino al nostro secolo le condizioni rimasero più o meno invariate, con gli inevitabili alti e bassi. Paganino Bonafé nel suo poemetto didascalico II tesoro dei Rustici (1360) racconta come si «chiarificavano» i vini, ossia mediante l'aggiunta di chiare d'uo-vo, acqua e sale, oppure con latte di capra e sale. Per la pulizia delle botti veniva consigliato ai cantinieri di non lavarle mai con acqua e di pulirle bene giù nel fondo, dove si raccolgono le fecce. Le pratiche enotecniche erano tutte svolte sulla base di conoscenze empiriche e anche di credenze tramandate dalla tradizione popolare. E questa tradizione, fortemente cristiana, suggeriva ai viticoltori di porre le viti sotto la protezione di particolari santi (San Vincenzo nella Borgogna, Sant'Urbano in Renania, San Teodulo in Svizzera). Inoltre gli artigiani hanno sempre decorato gli oggetti di uso comune per le operazioni viticole. Il ceppo della vite, sui tini e sui vasi vinari, viene assunto a simbolo di Cristo e della vita eterna.

(Continua con Enologia nell'era aurea di Roma e nel Medioevo Parte Seconda)

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